Per chi ha in uggia la casa inospitale, il rifugio
preferito nelle serate fredde è sempre il cinema. La passione di Marcovaldo
erano i film a colori, sullo schermo grande che permette d'abbracciare i più
vasti orizzonti: praterie, montagne rocciose, foreste equatoriali, isole dove
si vive coronati di fiori. Vedeva il film due volte, usciva solo quando il
cinema chiudeva; e col pensiero continuava ad abitare quei paesaggi e a
respirare quei colori. Ma il rincasare nella sera piovigginosa, l'aspettare
alla fermata il tram numero 30, il constatare che la sua vita non avrebbe
conosciuto altro scenario che tram, semafori, locali al seminterrato, fornelli
a gas, roba stesa, magazzini e reparti d'imballaggio, gli facevano svanire lo
splendore del film in una tristezza sbiadita e grigia.
Quella sera, il film che aveva visto si svolgeva nelle
foreste dell'India: dal sottobosco paludoso s'alzavano nuvole di vapori, e i
serpenti salivano per le liane e s'arrampicavano alle statue d'antichi templi
inghiottiti dalla giungla.
All'uscita del cinema, aperse gli occhi sulla via, tornò a chiuderli, a riaprirli:
non vedeva niente. Assolutamente niente. Neanche a un palmo dal naso. Nelle ore
in cui era restato là dentro, la nebbia aveva invaso la città, una nebbia
spessa, opaca, che involgeva le cose e i rumori, spiaccicava le distanze in uno spazio senza dimensioni, mescolava le luci
dentro il buio trasformandole in bagliori senza forma né luogo.
Marcovaldo si diresse macchinalmente alla fermata del 30
e sbattè il naso contro il palo del cartello. In quel momento,
s'accorse d'essere felice: la nebbia, cancellando il mondo intorno, gli
permetteva di conservare nei suoi occhi le visioni dello schermo panoramico.
Anche il freddo era attutito, quasi che la città si fosse rincalzata addosso
una nuvola come una coperta. Marcovaldo, imbacuccato nel suo pastrano, si
sentiva protetto da ogni sensazione esterna, librato nel vuoto, e poteva
colorare questo vuoto con le immagini dell'India, del Gange, della giungla, di
Calcutta.
Venne il tram, evanescente come un fantasma,
scampanellando lentamente; le cose esistevano appena quel tanto che basta; per
Marcovaldo quella sera lo stare in fondo al tram, voltando la schiena agli
altri passeggeri, fissando fuori dai vetri la notte vuota, attraversata solo da
indistinte presenze luminose e da qualche ombra più nera del buio, era la
situazione perfetta per sognare a occhi aperti, per proiettare davanti a sé
dovunque andasse un film ininterrotto su uno schermo sconfinato.
Così fantasticando aveva perso il conto delle
fermate; a un tratto si domandò dov'era; vide il tram ormai quasi vuoto; scrutò
fuori dai vetri, interpretò i chiarori che affioravano, stabilì che la sua
fermata era la prossima, corse all'uscita appena in tempo, scese. Si guardò
intorno cercando qualche punto di riferimento. Ma quel poco d'ombre e luci che
i suoi occhi riuscivano a raccogliere, non si componevano in nessuna immagine
conosciuta. S'era sbagliato di fermata e non sapeva dove si trovava.
A incontrare un passante, era niente farsi indicare la
via; ma, fosse il luogo solitario, l'ora, il tempo impervio, non si vedeva ombra di persona umana.
Finalmente la vide, un'ombra, e attese che s'avvicinasse. No: s'allontanava,
forse stava attraversando, o camminava in mezzo alla via, poteva essere non un
pedone ma un ciclista, su una bicicletta senza luci.
Marcovaldo gridò: – Per piacere! Per piacere, monsù! Sa
dov'è via Pancrazio Pancrazietti?
La figura s'allontanava ancora, quasi non si vedeva più. Disse: – Di lààà... – ma
non si sapeva da quale parte indicasse.
– Destra o sinistra? – gridò Marcovaldo ma non sapeva
se si rivolgeva al vuoto.
Una risposta arrivò, o uno strascico di risposta: un «...
istra!» che poteva anche essere «... estra!» Comunque, poiché l'uno non vedeva
com'era voltato l'altro, destra o sinistra non volevano dir niente.
Marcovaldo ora camminava verso un chiarore che pareva
venire dall'altro marciapiede, un po' più in là. Invece la distanza era molto più
lunga: occorreva attraversare una specie di piazza, con in mezzo un isolotto
erboso, e le frecce (unico segno intellegibile) della rotazione obbligatoria
per le auto. L'ora era tarda ma certo era aperto ancora qualche caffè, qualche
osteria; l'insegna luminosa che cominciava a decifrarsi diceva: Bar... E si
spense; su quello che doveva essere un vetro illuminato calò una lama di buio,
come una saracinesca. Il bar stava chiudendo, ed era ancora – gli sembrò di
capire in quel momento – lontanissimo.
Tanto valeva puntare su un'altra luce: Marcovaldo
camminando non sapeva se seguiva una linea retta, se il punto luminoso verso il
quale si dirigeva fosse sempre lo stesso o si sdoppiasse o triplicasse o
cambiasse di posto. Il pulviscolo d'un nero un po' lattiginoso dentro il quale
si muoveva era così minuto
che già lo sentiva infiltrarsi per il pastrano, tra filo e filo
del tessuto, come in un setaccio, imbeverlo come una spugna.
La luce che raggiunse era l'uscio fumoso d'un'o–steria.
Dentro c'era gente seduta e in piedi al banco, ma, fosse l'illuminazione
cattiva, fosse la nebbia penetrata dappertutto, anche lì le figure apparivano
sfocate, come appunto in certe osterie che si vedono al cinema, situate in
tempi antichi o in paesi lontani.
– Cercavo... se magari loro sanno... Via Pancrazietti...
– cominciò a dire, ma nell'osteria c'era rumore, ubriachi che
ridevano credendolo ubriaco, e le domande che riuscì a fare, le spiegazioni che
riuscì a ottenere, erano anch'esse nebbiose e sfocate. Tanto più che, per
scaldarsi, ordinò – o meglio: si lasciò imporre da quelli che stavano al banco
– un quarto di vino, dapprincipio, e poi ancora mezzo litro, più qualche
bicchiere che, con gran manate sulle spalle, gli fu offerto dagli altri.
Insomma, quando uscì dall'osteria, le sue idee sulla via di casa non erano più
chiare di prima, ma in compenso più che mai la nebbia poteva contenere tutti i
continenti ed i colori.
Con in corpo il calore del vino, Marcovaldo camminò per un buon quarto d'ora,
a passi che sentivano continuamente il bisogno di spaziare a sinistra e a
destra per rendersi conto dell'ampiezza del marciapiede (se ancora stava
seguendo un marciapiede) e mani che sentivano il bisogno di tastare
continuamente i muri (se ancora stava seguendo un muro). La nebbia nelle idee,
camminando, gli si diradò; ma quella di fuori restava fitta. Ricordava che
all'osteria gli avevano detto di prendere un certo corso, seguirlo per cento
metri, poi domandare ancora. Ma adesso non sapeva di quanto s'era allentanato dall'osteria, o se non aveva fatto che girare
intorno all'isolato.
I luoghi parevano disabitati, tra muri di mattoni come
recinti di fabbriche. A un cantone c'era certamente la tabella col nome della
via, ma la luce del lampione, sospeso in mezzo alla carreggiata, non arrivava
fin lassù. Marcovaldo per avvicinarsi alla scritta s'arrampicò al
palo d'un divieto di sosta. Salì fino a mettere il naso sulla targa, ma la
scritta era sbiadita e lui non aveva fiammiferi per illuminarla meglio. Sopra
la tabella il muro culminava in un orlo piano e largo, e sporgendosi dal palo
del divieto di sosta Marcovaldo riuscì a issarsi là in cima. Aveva intravisto,
piantato sopra l'orlo del muro, un grande cartello biancheggiante. Mosse
qualche passo sull'orlo del muro, fino al cartello; qui il lampione rischiarava
le lettere nere sul fondo bianco, ma la scritta «L'ingresso è severamente
vietato alle persone non autorizzate» non serviva a dargli nessun lume.
L'orlo del muro era abbastanza largo da poterci star
sopra in equilibrio e camminare; anzi, a pensarci bene, era meglio del
marciapiede, perché i lampioni erano all'altezza giusta per
illuminare i passi, segnando una striscia chiara in mezzo al buio. A un certo
punto il muro terminava e Marcovaldo si trovò contro il capitello d'un
pilastro; no, faceva un angolo retto e continuava...
Così tra angoli rientranze biforcazioni pilastri
il percorso di Marcovaldo seguiva un disegno irregolare; più volte egli credeva
che il muro terminasse e poi scopriva che continuava in un'altra direzione; tra
tante giravolte non sapeva più in che senso era voltato, cioè da che parte
avrebbe dovuto saltare, volendo ridiscendere in strada. Saltare... E se il
dislivello fosse aumentato? S'accoccolò in cima a un pilastro, cercò di
scrutare in basso, da una parte e dall'altra, ma nessun raggio di luce arrivava fino al
suolo: poteva trattarsi d'un saltello di due metri come d'un abisso. Non gli
restava che proseguire là in cima.
La via di scampo non tardò ad apparire. Era una
superficie piana, biancheggiante, contigua al muro: forse il tetto d'un
edificio, in cemento – come Marcovaldo si rese conto prendendo a camminarci
–che si prolungava nel buio. Si pentì subito d'esser–cisi inoltrato: adesso
aveva perso qualsiasi punto di riferimento, s'era allontanato dalla fila dei
lampioni, e ogni passo che faceva poteva portarlo sull'orlo del tetto, o più in
là, nel vuoto.
Il vuoto era veramente un baratro. Dal basso trasparivano
piccole luci, come ad una gran distanza, e se laggiù erano i lampioni, il
suolo doveva essere molto più in basso ancora. Marcovaldo si trovava sospeso in
uno spazio impossibile da immaginare: a tratti in alto apparivano luci verdi e
rosse, disposte in figure irregolari come costellazioni. Scrutando quelle luci
a naso in su, non tardò a succedergli d'allungare un passo nel vuoto e di
precipitare.
«Sono morto!» pensò, ma nel
momento stesso si trovò seduto su di un terreno molle; le sue mani tastavano
dell'erba; era caduto in mezzo a un prato, incolume. Le luci basse, che gli
erano sembrate così lontane, erano tante lampadine in fila al livello del
suolo.
Un posto insolito per mettere delle luci, però comodo, perché gli
tracciavano un cammino. Il suo piede adesso non calpestava più l'erba ma
l'asfalto: in mezzo ai prati passava una grande via asfaltata, illuminata da
quei raggi luminosi raso terra. Intorno, niente: solo gli altissimi bagliori colorati,
che apparivano e sparivano.
«Una strada asfaltata
porterà da qualche parte», Marcovaldo pensò, e prese a seguirla. Arrivò a una biforcazione, anzi a un incrocio, ogni ramo di
strada fiancheggiato da quelle piccole lampade basse, e con enormi cifre
bianche segnate al suolo.
Si scoraggiò. Cosa importava scegliere da che parte
andare se intorno non c'era che questa piatta prateria d'erba e nebbia vuota?
Fu a questo punto che vide, a altezza d'uomo, un movimento di raggi di luce. Un
uomo, veramente un uomo con le braccia aperte, vestito – pareva – d'una tuta
gialla, agitava due palette luminose come quelle dei capista–zione.
Marcovaldo corse verso quest'uomo e prima ancora d'averlo
raggiunto prese a dire, tutto affannato: – Ehi, lei, dica, io qui, in mezzo a
questa nebbia, come si fa, ascolti...
– Non si preoccupi, – rispose tranquilla e cortese la
voce dell'uomo in giallo, – sopra i mille metri non c'è nebbia, vada sicuro, la
scaletta è lì avanti, gli altri sono già saliti.
Era un discorso oscuro, ma incoraggiante: a Marcovaldo
soprattutto piacque di sentire che a poca distanza c'erano altre persone; avanzò per raggiungerle senza
fare altre domande.
La scaletta misteriosamente preannunciata era proprio una
piccola scala con comodi scalini fiancheggiati da due parapetti, che
biancheggiava nel buio. Marcovaldo salì. Sulla soglia d'una porticina una ragazza
lo salutò con tanta gentilezza che pareva impossibile si rivolgesse proprio a
lui.
Marcovaldo si profuse in riverenze: – I miei rispetti,
signorina! Tante belle cose! – Imbevuto di freddo e di umidità com'era non gli pareva
vero di trovar rifugio sotto un tetto...
Entrò, sbattè gli occhi abbagliato dalla luce.
Non era in una casa. Era, dove?, in un autobus, credette di capire, un lungo
autobus con molti posti vuoti. Si sedette; di solito per rincasare prendeva non l'autobus ma il tram perché il biglietto costava un
po' meno, ma stavolta s'era smarrito in una zona così lontana che certamente
c'erano solo autobus che facevano servizio. Che fortuna d'essere arrivato in
tempo per questa che doveva essere l'ultima corsa! E che morbide, accoglienti
le poltrone! Marcovaldo, ora che lo sapeva, avrebbe preso sempre l'autobus,
anche se i passeggeri erano sottoposti a qualche obbligo («... Sono pregati, –
diceva un altoparlante, – di non fumare e allacciarsi le cinture...»), anche se
il rombo del motore in partenza era addirittura esagerato.
Qualcuno in uniforme passava tra i sedili. – Scusi,
signor bigliettaio, – disse Marcovaldo, – sa se c'è una fermata dalle parti
di via Pancrazio Pancra–zietti?
– Come dice signore? Il primo scalo è Bombay, poi Calcutta e
Singapore.
Marcovaldo si guardò intorno. Negli altri posti erano seduti
impassibili indiani con la barba e col turbante. C'era pure qualche donna,
avvolta in un sari ricamato, e con un tondino di lacca sulla fronte. La notte
ai finestrini appariva piena di stelle, ora che l'aeroplano, attraversata la
fitta coltre di nebbia, volava nel cielo limpido delle grandi altezze.
RispondiEliminaOdio chi ha inventato questo sito. Da parte di tutti gli alunni della 1d
RispondiElimina:) a causa di Marcovaldo?
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