I rumori della città che le notti d'estate entrano dalle finestre aperte nelle stanze di chi non può dormire per il caldo, i rumori veri della città notturna, si fanno udire quando a una cert'ora l'anonimo frastuono dei motori dirada e tace, e dal silenzio ven–gon fuori discreti, nitidi, graduati secondo la distanza, un passo di nottambulo, il fruscio della bici d'una guardia notturna, uno smorzato lontano schiamazzo, ed un russare dai piani di sopra, il gemito d'un malato, un vecchio pendolo che continua ogni ora a battere le ore. Finché comincia all'alba l'orchestra delle sveglie nelle case operaie, e sulle rotaie passa un tram.
Così una notte Marcovaldo, tra la moglie e i bambini che sudavano nel sonno, stava a occhi chiusi ad ascoltare quanto di questo pulviscolo di esili suoni filtrava giù dal selciato del marciapiede per le basse finestrelle, fin in fondo al suo seminterrato. Sentiva il tacco ilare e veloce d'una donna in ritardo, la suola sfasciata del raccoglitore di mozziconi dalle irregolari soste, il fischiettio di chi si sente solo, e ogni tanto un rotto accozzo di parole d'un dialogo tra amici, tanto da indovinare se parlavano di sport o di quattrini. Ma nella notte calda quei rumori perdevano ogni spicco, si sfacevano come attutiti dall'afa che ingombrava il vuoto delle vie, e pure sembravano volersi imporre, sancire il proprio dominio su quel regno disabitato. In ogni presenza umana Marcovaldo riconosceva tristemente un fratello, come lui inchiodato anche in tempo di ferie a quel forno di cemento cotto e polveroso, dai debiti, dal peso della famiglia, dal salario scarso.
E come se l'idea d'un'impossibile vacanza gli avesse subito schiuse le porte d'un sogno, gli sembrò d'intendere lontano un suono di campani, e il latrato d'un cane, e pure un corto muggito. Ma aveva gli occhi aperti, non sognava: e cercava, tendendo l'orecchio, di trovare ancora un appiglio a quelle vaghe impressioni, o una smentita; e davvero gli arrivava un rumore come di centinaia e centinaia di passi, lenti, sparpagliati, sordi, che s'avvicinava e sovrastava ogni altro suono, tranne appunto quel rintocco rugginoso.
Marcovaldo s'alzò, s'infilò la camicia, i pantaloni. – Dove vai? – disse la moglie che dormiva con un occhio solo.
– C'è una mandria che passa per la via. Vado a vedere.
– Anch'io! Anch'io! – fecero i bambini che sapevano svegliarsi al punto giusto.
Era una mandria come ne attraversano nottetempo la città, al principio dell'estate, andando verso le montagne per l'alpeggio. Saliti in strada con gli occhi ancora mezz'appiccicati dal sonno, i bambini videro il fiume delle groppe bige e pezzate che invadeva il marciapiede, e strisciava contro i muri ricoperti di manifesti, le saracinesche abbassate, i pali dei cartelli di sosta vietata, le pompe di benzina. Avanzando i prudenti zoccoli giù dal gradino ai crocicchi, i musi senza mai un soprassalto di curiosità accostati ai lombi di quelle che le precedevano, le mucche si portavano dietro il loro odore di strame e di fiori di campo e latte ed il languido suono dei campani, e la città pareva non toccarle, già assorte com'erano dentro il loro mondo di prati umidi, nebbie montane e guadi di torrenti.
Impazienti invece, come innervositi dal sovrastare della città, apparivano i vaccari, che s'affannavano in brevi, inutili corse a fianco della fila, alzando i bastoni ed esplodendo in voci aspirate e rotte. I cani, cui nulla di quel che è umano è alieno, ostentavano disinvoltura procedendo a muso ritto, scampanellando, attenti al loro lavoro, ma si capiva che anch'essi erano inquieti e impacciati, altrimenti si sarebbero lasciati distrarre e avrebbero cominciato a annusare cantoni, fanali, macchie sul selciato, com'è primo pensiero d'ogni cane di città.
– Papa, – dissero i bambini, – le mucche sono come i tram? Fanno le fermate?
Dov'è il capolinea delle mucche?
– Niente a che fare coi tram, – spiegò Marcovaldo. – Vanno in montagna.
– Si mettono gli sci? – chiese Pietruccio.
– Vanno al pascolo, a mangiare dell'erba.
– E non gli fanno la multa se sciupano i prati?
Chi non faceva domande era Michelino, che, più grande degli altri, le sue idee sulle mucche già le aveva, e badava solo ormai a verificarle, a osservare le miti corna, le groppe e le giogaie variegate. Così seguiva la mandria, trotterellando a fianco come i cani pastori.
Quando l'ultimo branco fu passato, Marcovaldo prese per mano i bambini per tornare a dormire, ma non vedeva Michelino. Scese nella stanza, chiese alla moglie: – Michelino è già tornato?
– Michelino? Non era con te?
«S'è messo a seguire la mandria e chissà dov'è andato», pensò, e ritornò di corsa in strada. Già la mandria aveva traversato la piazza e Marcovaldo dovette cercare la via in cui aveva svoltato. Ma pareva che quella notte diverse mandrie stessero traversando la città, ognuna per vie diverse, diretta ognuna alla sua valle. Marcovaldo rintracciò e raggiunse una mandria, poi s'accorse che non era la sua; a una traversa vide che quattro vie più in là un'altra mandria procedeva parallela e corse da quella parte; là i vaccari l'avvertirono che ne avevano incontrata un'altra diretta in senso inverso. Così, fino a che l'ultimo suono di campanaccio fu dileguato alla luce dell'alba, Marcovaldo continuò a girare inutilmente.
Il commissario cui si rivolse per denunciare la scomparsa del figlio, disse: – Dietro una mandria? Sarà andato in montagna, a farsi la villeggiatura, beato lui. Vedrai, tornerà grasso e abbronzato.
L'opinione del commissario ebbe conferma qualche giorno dopo da un impiegato della ditta dove lavorava Marcovaldo, tornato dal primo turno di ferie. A un passo di montagna aveva incontrato il ragazzo: era con la mandria, mandava a salutare il padre, e stava bene.
Marcovaldo nella polverosa calura cittadina andava col pensiero al suo figlio fortunato, che adesso certo passava le ore all'ombra d'un abete, zufolando con una foglia d'erba in bocca, guardando giù le mucche muoversi lente per il prato, e ascoltando nell'ombra della valle un fruscio d'acque.
La mamma invece non vedeva l'ora che tornasse: – Verrà in treno? Verrà in corriera? E già una settimana... È già un mese... Farà cattivo tempo... – e non si dava pace, con tutto che averne uno di meno a tavola ogni giorno fosse già un sollievo.
– Beato lui, sta al fresco, e si riempie di burro e formaggio, – diceva Marcovaldo, e ogni volta che dal fondo d'una via gli appariva, velato appena dalla calura, il frastaglio bianco e grigio delle montagne, si sentiva come sprofondato in un pozzo, alla cui luce, lassù in alto, gli pareva di veder scintillare fronde d'aceri e castagni, e ronzare api servatiche, e Michelino lassù, pigro e felice, tra il latte e il miele e le more di siepe. Anche lui però aspettava il ritorno del figlio di sera in sera, pur non pensando, come la
madre, agli orari del treno e delle corriere: stava in ascolto la notte ai passi sulla via come se la finestrella della stanza fosse la bocca d'una conchiglia, riecheggiante, ad appoggiarvi l'orecchio, i rumori montani.
Ecco, una notte, alzatosi di scatto a sedere sul letto, non era un'illusione, sentiva sul selciato avvicinarsi quell'inconfondibile scalpiccio d'unghie fesse, misto al rintocco dei campani.
Corsero in strada, lui e tutta la famiglia. Ritornava la mandria, lenta e grave. E nel mezzo della mandria, a cavalcioni sulla groppa d'una mucca, con le mani strette al collare, col capo che ballonzolava a ogni passo, c'era, mezzo addormentato, Michelino. Lo presero su di peso, l'abbracciarono e baciarono. Lui era mezzo stordito.
– Come stai? Era bello? Oh...sì...
– E a casa avevi voglia di tornare? –Sì...
– È bella la montagna?
Era in piedi, di fronte a loro, con le ciglia aggrottate, lo sguardo duro.
– Lavoravo come un mulo, – disse, e sputò davanti a sé. S'era fatta una faccia da uomo.
– Ogni sera spostare i secchi ai mungitori da una bestia all'altra, da una bestia all'altra, e poi vuotarli nei bidoni, in fretta, sempre più in fretta, fino a tardi. E al mattino presto, rotolare i bidoni fino ai camion che li portano in città... E contare, contare sempre: le bestie, i bidoni, guai se si sbagliava...
– Ma sui prati ci stavi? Quando le bestie pascolavano?...
– Non s'aveva mai tempo. Sempre qualcosa da fare. Per il latte, le lettiere, il letame. E tutto per che cosa? Con la scusa che non avevo il contratto di lavoro, quanto m'hanno pagato? Una miseria. Ma se ora vi credete che ve ne dia a voi, vi sbagliate. Su, andiamo a dormire che sono stanco morto.
Scrollò le spalle, tirò su dal naso ed entrò in casa. La mandria continuava a allontanarsi nella via, portandosi dietro i menzogneri e languidi odori di fieno e suoni di campani.
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